Giu 202023
 

C’è un tempo per la matita e il rossetto
Un tempo per tagliare i capelli
C’è un tempo per le compere nella via principale
Per trovare il vestito giusto da indossare

U2 – Miss Sarajevo

Ci sono tragedie, e sono la stragrande maggioranza, che ci sfiorano. Qualche telegiornale, un po’ di articoli, una foto iconica. Poi arrivano le vacanze, le bollette, la Champions, un nuovo film, un anniversario da festeggiare e tutto viene digerito nella nostra quotidianità. Forse è normale che sia così. Non possiamo reggere l’urto del dolore (e dell’orrore) per un tempo indefinito. Soprattutto se non colpisce direttamente la nostra carne e i nostri affetti. E poi lo sappiamo, ormai viviamo in una liquidità dove siamo drogati di emozioni. Piccole dosi di emozioni con forti iniezioni di indignazione, gioia, rabbia, esaltazione a seconda di ciò che più ci aggrada. Scegliete voi. Ormai il nostro ego può farsi coccolare in ogni momento dalla carezza emotiva che vuole.

Comunque, tanto per interrompere questa digestione quotidiana d’emozioni: sono appena passati trent’anni dallo scoppio della guerra nella ex Jugoslavia. Ero giovane, e ad aiutarmi a ritornare in quella follia ci hanno pensato tre giornalisti.

I primi due, Battistini e Mian, hanno scritto un bellissimo libro, Maledetta Sarajevo, che toglie dal cono d’ombra della dimenticanza persone e episodi terribili. Spesso mi sono trovato a chiedermi “ma davvero succedeva questo?”, davvero accanto alla bolla temporale della mia adolescenza sono vissuti e hanno agito con così grande efferatezza questi uomini e queste donne? Da noi c’erano Mani Pulite, le stragi di mafia, Falcone e Borsellino. Solo due anni prima Italia Novanta. Di là, a pochi chilometri, la bestia feroce era uscita dalla gabbia e sgozzava, stuprava, rinchiudeva in campi di sterminio, bombardava, ripuliva etnicamente. E nuovi semi di un odio antico venivano ancora una volta deposti nella stessa terra.  

Poi Toni Capuozzo. Con il suo Ritorno all’Inferno, un commovente documentario sulla sua esperienza come inviato a Sarajevo. La solita faccia da impiegato comunale, borse sotto gli occhi, voce modellata dal fumo di migliaia di sigarette. Dai filmati di quel tempo emerge il suo stile, che è ancora lo stesso di oggi. L’urgenza di narrare, la precisione nel racconto, il tentativo di interpretare le vicende, le riflessioni mai banali ma comprensibili a tutti. Il tutto senza spettacolarizzazione o inutili travestimenti da inviato di guerra. C’è in lui il tentativo di spiegare l’incoerenza brutale di quel mattatoio senza per forza trovarne un senso. 

Due spunti in particolare mi hanno colpito, e li condivido. A un certo punto Capuozzo parla di aver maturato in quei frangenti “il senso di inutilità del lavoro del giornalismo”: qualsiasi cosa avesse detto o testimoniato non sarebbe servito a nulla, non avrebbe fermato la guerra. Ma è rimasto, “come si fa con una persona cara malata in ospedale”. E lo spiega con la sua voce, la sua solita voce dove, sotto le migliaia di sigarette, riesci a cogliere la compassione verso le persone conosciute nell’assedio e sua la dura, dolorosa fedeltà al lavoro.

E poi la vicenda di Kemal. Il neonato a cui ha dato la possibilità di camminare con una protesi, portandolo in Italia e tenendolo con sè per quattro anni, lontano dall’inferno. Ecco: in questo gesto d’amore totalmente gratuito io ci vedo forse una delle più belle risposte al male. Di fronte ad un male così antico e radicato che ci lascia sgomenti e inermi, a questi Sparti nati da denti di drago continuamente seminati, la risposta che noi forse possiamo dare può essere solo questa: mettere al riparo i più piccoli e deboli e mostrare loro un mondo altro, possibile e umano.

Maco

Mar 292023
 

Oh, shine your light (oh, shine your light)

Oh, shine a light (oh, shine your light)

Then I know that in the darkness I’m alright (I’m alright)

See there’s no sun rising, but inside I’m free

‘Cause the Lord will shine a light for me (shine your light on me)

Oh, the Lord will shine a light on me (shine your light on me)

Coldplay – Broken

A volte abbiamo la sensazione di avere come un macigno sulle spalle. Che continua a trascinarci verso il basso. È come se sull’anima gravasse un peso che solo Atlante potrebbe portare. Eppure… eppure c’è sempre quel desiderio di rialzare lo sguardo e fissare gli occhi nello sguardo di Dio. La Quaresima ci aiuta anche in questo: a sgravarci da questo peso spirituale che a volte sembra inaridire i nostri cuori. Da sempre, e giustamente, alla Quaresima è associato il tema della mortificazione. Fra i tanti strumenti a disposizione per vivere bene la Quaresima mi sento di condividerne due con voi:

  • Inginocchiarci, e rimettere tutto nelle mani di Dio
  • Confessarci, e ricominciare a camminare spediti

In entrambi i casi sarà il nostro orgoglio a farne la spesa. Ed è giusto così: pensiamo di essere chissà chi, ma senza Dio siamo nulla e la nostra storia non ha senso.

Un’ultima osservazione: spesso alla Quaresima viene associato anche il tema del deserto perchè legato al brano delle tentazioni della prima Domenica e anche per una consonanza d’immagini interiori ed esteriori: il deserto come luogo dove ci si spoglia di tutto ciò che è superfluo, materialmente e spiritualmente. Ma in realtà credo che dobbiamo tenere presente anche questa qualità del deserto (penso a quello d’Israele): non è terra condannata in eterno alla sterilità. Al contrario: Isaia profetizzava il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e fiorirà come la rosa; si coprirà di fiori e festeggerà con gioia e canti di esultanza. Come il deserto, così anche la nostra vita ha in sé tutta questa enorme potenzialità: dobbiamo solo avere la pazienza e la forza di lavorare la nostra anima per renderla anche quest’anno un giardino di gioia e canti.

Maco

Ott 182022
 

Si è vecchi quando domani è già ieri
Arthur Journo

Mi sono imbattuto di recente in questa frase, tratta dal diario di A.J. pubblicato con il titolo “il ribelle”.
Non so se capita anche a voi, ma a volte certe parole e soprattutto certe frasi di un respiro un po’ più ampio, girano come foglie autunnali nella testa, posandosi qua e là su quel che viviamo, a volte per restare definitivamente incollate sul terreno di certi avvenimenti, altre per essere di nuovo sollevate nel vento e portate da qualche altra parte.
Nell’aria pesante di questa settimana, in cui le nubi dense di una guerra sempre più delirante si accumulano all’orizzonte, queste parole si sono posate nel fango di certezze sempre più fragili e sempre più balbettate, come quella di un mondo illuminato dalla ragione, o anche solo dall’esperienza.
Invece della speranza e della fiducia, si fanno strada domande sempre più pressanti e inclementi: noi, civiltà matura e consapevole del passato, abbiamo davvero imparato qualcosa dalla storia? Oppure saremo sempre destinati a compiere gli stessi errori?
“We never change. Do we?” recita un brano dei Coldplay in una canzone malinconica come quando si scioglie la neve: “non cambiamo mai! Non è vero?”.

Arthur Juno visse lo strazio della guerra e dei pogrom: una vita che fu letteralmente un difficile cammino verso la terra promessa. Che cosa intendeva dire affermando che si è vecchi “quando il domani è già ieri”?
Forse indicava quello stato d’animo di cui parla Vasco, in un brano che racconta di quando uno ha smesso di credere nel domani e nelle sue possibilità:


“Ed ora che del mio domani non ho più la nostalgia,
ci vuole sempre qualcosa da bere, ci vuole sempre vicino il bicchiere”.

Vasco Rossi, Stupendo

Il domani è già ieri quando diciamo “ormai ho già visto tutto quello che c’era da vedere”, “ormai so tutto quello che c’era da sapere”.
Se per noi le cose sono sempre le stesse, se pensiamo che il domani sia già scritto nel perpetuarsi degli errori di ieri, non significa che oggettivamente non c’è speranza, ma che noi non la sappiamo trovare perchè siamo già vecchi dentro, indipendentemente dall’età biologica delle nostre cellule.
Ebbene: questo non è un paese per vecchi! il mondo è un posto per gente che guarda al domani rendendosi conto di avere sempre gli strumenti e le possibilità per cambiarlo.

Oggi, io parto da qui.

dAle

Giu 202019
 

Something is about to give
I can feel it coming
I think I know what it means
I’m not afraid to die
I’m not afraid to live
And when I’m flat on my back
I hope to feel like I did

Who’s to say where the wind will take you
Who’s to say what it is will break you
I don’t know which way the wind will blow
Who’s to know when the time has come around
Don’t wanna see you cry
I know that this is not goodbye

U2 – Kite

  • Dottoressa, cosa dobbiamo dire a nostra figlia?
  • In che senso?
  • Beh, sa… noi non ci abbiamo mai pensato… non sappiamo cosa ci sia o non ci sia… non ce lo siamo mai chiesto. Dove possiamo dirle che sia andato il nonno?
  • Perché? Dove è andato?
  • Beh… è morto.
  • Ah…

Uno dei tanti colloqui sentiti che ruota attorno al problema di quando bisogna parlare con i nostri figli di quel tabù innominabile che è la morte. È il limite. Per molti di noi è sempre stato così: meglio non pensarci, meglio non svegliare il can che dorme. Stiamo bene, siamo mediamente felici, lavoriamo, ci divertiamo e tutto fila liscio.

Quasi tutto. Perché poi le domande che ci chiamano ad essere responsabili arrivano e ci lasciano spaesati. Per qualcuno è un’occasione per riflettere e cominciare un cammino forse nuovo o forse interrotto anni prima. Per altri è solo un’ombra fastidiosa da scrollarsi di dosso il più in fretta possibile.
Di fronte al dialogo quasi surreale raccontatomi da mia moglie mi sono tornate alla memoria le parole di Jean Guitton in Lettera a un bimbo:

Da vecchio ho imparato, troppo tardi, senza alcun dubbio, che ci si arricchisce vivendo con un bimbo. Soprattutto se si chiede al bimbo di fare delle domande. Ho fatto visita a un celebre filosofo tedesco che si chiama Heidegger. A quel tempo viveva in una baita da eremita e in mezzo a quella campagna coperta di neve, Heidegger mi diede questo consiglio: “Se vuol progredire, tanto in filosofia quanto in religione, si faccia porre domande da un bambino. Non potrà rispondergli sempre, ma le farà scoprire la verità: perché il Vero è sempre velato. Il bambino toglie il velo”.

Essere responsabili significa essere capaci di rispondere. Da genitori, sforzarsi di farlo è il minimo. Con le parole, la propria vita quotidiana, i sentimenti. C’è tutto un universo di valori e di verità che aspettano di essere conquistati e trasmessi. Se li lasciamo sempre in secondo piano rischiano di evaporare e diventare sempre più evanescenti.

Concludo con l’augurio di Guitton:

Ti guardo con tenerezza, con timore, con speranza. Perché io sono il passato e tu l’avvenire. Sarai forse tu, piccolo, a rinnovare la gioia della terra. Per questo dovresti rimanere “piccolo”. Crescendo, dovresti rimanere bambino. Allora sarai un poeta, sarai un artista. Sarai fra coloro che la gente ammira perché hanno conservato il fascino dell’infanzia.
Eccoti alcuni consigli per rimanere bambino. Innanzitutto, il mattino, quando ti svegli, sentiti tutto meravigliato, come se il sole stesse per sorgere per la prima volta, come se tu per la prima volta saltassi fuori dal tuo letto per vivere. Immagina che quanto tu ora stai vedendo, ieri non fosse esistito, come se stessi assistendo alla nascita del sole, al principio del mondo. A scuola fai i tuoi compiti e applicati. Impara a tracciare le linee, a non commettere errori. Ti consiglierei di essere spesso un po’ distratto; di avere una parte di te che presta attenzione alle linee, alla punteggiatura e a tutto ciò che ti insegnano i maestri, e un’altra parte che deve essere come un uccello, che vola lontano e non presta attenzione a nulla. Per rimanere un bimbo tutta la vita, è questa seconda parte di te stesso che dovrai coltivare. Diranno che sogni. Ma è il “sogno da sveglio” che regala il genio…

 Maco