Marc Chagall
Fenêtre àla campagne
Come educatori siamo sempre chiamati a misurarci con l’attesa.
L’attesa è come un crinale, come la lama di una cresta: facile cadere da una parte o dall’altra.
Da un lato rischiamo la tentazione di voler accorciare i tempi.
Quando si dice (o si tace) la propria delusione di fronte ai frutti che non arrivano, si denuncia la propensione ad “avere delle attese” piuttosto che a viverle.
E’ il rischio di chi ha progetti sulla vita altrui, e dimentica che diversamente dai vegetali, delle persone non possiamo nemmeno dire con certezza quale sarà la stagione del raccolto.
D’altra parte però non si può rinunciare alla promessa del frutto che ogni pianta porta con sé, pena il tradimento della sua identità. Perché il rischio opposto è quello di non aspettarsi nulla dal tempo, quasi che la maturazione non sia più la prospettiva finale dell’azione educativa. Allora al tempo togliamo il suo senso, e all’attesa la sua ragione, dato che la vocazione dell’albero è di produrre il proprio frutto.
Un amico un giorno mi ha regalato una frase del poeta Rainer Maria Rilke:
“Ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare”.
Mi ha da subito colpito la forza di questa espressione “obbligare”, quasi a dire l’eccedenza della vocazione alla pienezza (il meglio che puoi), di fronte alla quale non si può transigere, perché sennò non si ama.
L’attesa in educazione è un continuo e gratuito prendersi cura, che non ha altro fine se non la pienezza dell’altro. E’ gratuità totale.
Dannatamente difficile.
dAle