Something is about to give
I can feel it coming
I think I know what it means
I’m not afraid to die
I’m not afraid to live
And when I’m flat on my back
I hope to feel like I did
…
Who’s to say where the wind will take you
Who’s to say what it is will break you
I don’t know which way the wind will blow
Who’s to know when the time has come around
Don’t wanna see you cry
I know that this is not goodbye
U2 – Kite
- Dottoressa, cosa dobbiamo dire a nostra figlia?
- In che senso?
- Beh, sa… noi non ci abbiamo mai pensato… non sappiamo cosa ci sia o non ci sia… non ce lo siamo mai chiesto. Dove possiamo dirle che sia andato il nonno?
- Perché? Dove è andato?
- Beh… è morto.
- Ah…
Uno dei tanti colloqui sentiti che ruota attorno al problema di quando bisogna parlare con i nostri figli di quel tabù innominabile che è la morte. È il limite. Per molti di noi è sempre stato così: meglio non pensarci, meglio non svegliare il can che dorme. Stiamo bene, siamo mediamente felici, lavoriamo, ci divertiamo e tutto fila liscio.
Quasi tutto. Perché poi le domande che ci chiamano ad essere responsabili arrivano e ci lasciano spaesati. Per qualcuno è un’occasione per riflettere e cominciare un cammino forse nuovo o forse interrotto anni prima. Per altri è solo un’ombra fastidiosa da scrollarsi di dosso il più in fretta possibile.
Di fronte al dialogo quasi surreale raccontatomi da mia moglie mi sono tornate alla memoria le parole di Jean Guitton in Lettera a un bimbo:
Da vecchio ho imparato, troppo tardi, senza alcun dubbio, che ci si arricchisce vivendo con un bimbo. Soprattutto se si chiede al bimbo di fare delle domande. Ho fatto visita a un celebre filosofo tedesco che si chiama Heidegger. A quel tempo viveva in una baita da eremita e in mezzo a quella campagna coperta di neve, Heidegger mi diede questo consiglio: “Se vuol progredire, tanto in filosofia quanto in religione, si faccia porre domande da un bambino. Non potrà rispondergli sempre, ma le farà scoprire la verità: perché il Vero è sempre velato. Il bambino toglie il velo”.
Essere responsabili significa essere capaci di rispondere. Da genitori, sforzarsi di farlo è il minimo. Con le parole, la propria vita quotidiana, i sentimenti. C’è tutto un universo di valori e di verità che aspettano di essere conquistati e trasmessi. Se li lasciamo sempre in secondo piano rischiano di evaporare e diventare sempre più evanescenti.
Concludo con l’augurio di Guitton:
Ti guardo con tenerezza, con timore, con speranza. Perché io sono il passato e tu l’avvenire. Sarai forse tu, piccolo, a rinnovare la gioia della terra. Per questo dovresti rimanere “piccolo”. Crescendo, dovresti rimanere bambino. Allora sarai un poeta, sarai un artista. Sarai fra coloro che la gente ammira perché hanno conservato il fascino dell’infanzia.
Eccoti alcuni consigli per rimanere bambino. Innanzitutto, il mattino, quando ti svegli, sentiti tutto meravigliato, come se il sole stesse per sorgere per la prima volta, come se tu per la prima volta saltassi fuori dal tuo letto per vivere. Immagina che quanto tu ora stai vedendo, ieri non fosse esistito, come se stessi assistendo alla nascita del sole, al principio del mondo. A scuola fai i tuoi compiti e applicati. Impara a tracciare le linee, a non commettere errori. Ti consiglierei di essere spesso un po’ distratto; di avere una parte di te che presta attenzione alle linee, alla punteggiatura e a tutto ciò che ti insegnano i maestri, e un’altra parte che deve essere come un uccello, che vola lontano e non presta attenzione a nulla. Per rimanere un bimbo tutta la vita, è questa seconda parte di te stesso che dovrai coltivare. Diranno che sogni. Ma è il “sogno da sveglio” che regala il genio…
Maco