Ott 122017
 

I surrender myself
Into the arms of a beautiful stranger
I surrender myself to you, to you

Who really loves me?

You really love me
My beautiful stranger
You really love me
Like I love you

Saybia – I surrender

Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue leggi? / Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare./ È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri./ Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli./ Essi cercano sempre d’evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono… Ma l’uomo che è adombrerà/ l’uomo che pretende di essere… E il Figlio dell’Uomo non fu crocefisso una volta per tutte/ il sangue dei martiri non fu versato una volta per tutte,/ le vite dei Santi non vennero donate una volta per tutte (…). E se il Tempio dev’essere abbattuto /dobbiamo prima costruire il Tempio.

In luoghi abbandonati / Noi costruiremo con mattoni nuovi / Vi sono mani e macchine / E argilla per nuovi mattoni / E calce per nuova calcina / Dove i mattoni sono caduti / Costruiremo con pietra nuova / Dove le travi sono marcite / Costruiremo con nuovo legname / Dove parole non sono pronunciate / Costruiremo con nuovo linguaggio / C’è un lavoro comune / Una Chiesa per tutti / E un impiego per ciascuno / Ognuno al suo lavoro.

T. S. Eliot – Cori da La Rocca

 

Sono occhi che temono la morte, questi occhi?
Sono occhi che sprigionano odio, questi occhi?

Lo guardo. È un ragazzo di 26 anni. Di fianco a lui ci sono i soldati che fra pochi secondi lo fucileranno. Eppure ecco un uomo coraggioso e sicuro di quello che lo aspetta di lì a pochi attimi. Un salto nel buio? Dissolversi nel nulla? Tornare al buio da cui siamo venuti?
Prima di essere fucilato dice ai suoi assassini: “Non voglio altro che darvi la mia benedizione affinché Dio non vi imputi la follia che state per commettere”, li benedice e grida “Viva Cristo Re”.

Era un sacerdote, ora è beato. Felice, da Dio.

Maco

Giu 292015
 

gemma

I got dust on my shoes, nothing but teardrops
 You’re missing

I passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli
Sal 56

 

Come posso parlare, di fronte alla morte?
Come vivere passo dopo passo, normalmente, sapendo che altri sono nel lutto?
Come mitigare il loro cordoglio?

Ho un pudore verso il dolore che mi blocca, anche nei pensieri. L’ho sempre vissuto da solo, anche se negli amici ho trovato un porto sicuro. Ma non sono capace di consolare, di varcare la soglia dell’intimità altrui, per farmi carico di un po’ del loro dolore.

Fino a quanto posso spingermi? Anzi: posso farlo? Io non ho questa capacità. La morte ci è connaturata, ci permea ogni istante, basta solo prestarle attenzione.

So che la morte di un famigliare e di un amico lascia un vuoto eterno, che segnerà la vita dei presenti fino alla loro morte. Niente riporterà il tempo indietro. Nessuno potrà colmare il vuoto. Un’assenza che come migliaia di ami strappa la carne della memoria e lascia un dolore costante, che diventa una discordante nota di sottofondo nella nostra vita quotidiana.

Tornerò alla mia tavola, a mangiare, mentre altri piangono. Tornerò a leggere, a giocare, a lavorare. Per altri, nulla è più lo stesso di prima.

Tante domande, che ruotano soprattutto attorno a quel che avrebbe potuto essere nel tempo futuro e che da oggi non sarà più. Quanto il nostro legame si sarebbe rafforzato, sarebbe diventato condivisione e infine amicizia?

È uno sforzo terribile, guardare oltre questo buio per raccogliere semi di speranza per un tempo futuro, non certo per adesso. C’è nel mio libro questa voce forte che dichiara “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”.

Basta morte, basta lutto, ti prego. Vorrei solo una piccolissima visione, percepire un frammento di quell’ ecco, io faccio nuove tutte le cose, e tenermelo vicino al cuore.

Maco

Mag 112011
 

Per gli amanti della fantascienza il film Avatar di James Cameron (2009) doveva essere per forza un passaggio obbligato. Col senno di poi, è impossibile trovare originale una storia che sembra un po’ una rivisitazione extraterrestre di Pocahontas con citazioni che ricordano Balla coi lupi e l’ultimo dei Mohicani!
Cameron però (fatta esclusione di Abyss) è più cantante che cantautore, e quindi il suo forte non sta tanto nell’invenzione o nell’originalità della storia: è come la mette in piedi che è straordinario! In più, dopo anni e anni di lavoro, più o meno dagli anni di Titanic in poi, potendo permetterselo, James ha confezionato una vicenda immaginaria progettandone i dettagli nel modo più accurato, dagli effetti della realtà virtuale, alla creazione di un intero mondo, compresa la lingua nativa dei protagonisti. Incredibile.

Questa comunque non è una recensione: da qui in poi dunque vorrei condividere un pensiero che mi ha attraversato.
Ad un certo punto, durante la registrazione del suo video-diario, il protagonista (Jake Sully) descrive le credenze della popolazione Na’vi riportando un discorso di Neytiri:

“Lei parla di una rete di energia che scorre in tutte le creature viventi.
Dice che tutta l’energia è solo in prestito e che un giorno bisogna restituirla”.

Nell’immagine si vede la sepoltura di un Na’vi, deposto nella nuda terra e circondato di fiori. E’ un’immagine molto bella.
E’ come se Cameron, attraverso l’irenica rappresentazione di un mondo in cui l’equilibrio tra le creature non è offuscato da prevaricazioni e ingiustizie, immaginasse una sorta di paradiso terrestre dove però la morte, lungi dal non esistere, in un certo senso, semplicemente, non farebbe più paura.
I Na’vi infatti non soffrono per la morte quando essa è inserita nel ciclo naturale della loro evoluzione: soffrono invece quando essa è il risultato di una prevaricazione, di un’azione indebita e più precisamente, di un’azione “contro natura”. E questo è esattamente ciò che gli umani invasori portano con sé laddove arrivano.
Per questo Neytiri rimprovera Jake quando per ignoranza uccide animali “che non dovevano morire” sebbene più tardi gli insegni come cacciare, educandolo a “celebrare” la caccia come un momento sacro.
La maturità della “creatura” starebbe dunque nell’ecologia, ovvero nel rispetto degli equilibri naturali tra gli esseri viventi, attraverso i quali persino la morte individuale verrebbe serenamente accettata.
Naturalmente Cameron non ce la fa (da occidentale qual è) a rinunciare alla prospettiva di un “dopo la morte” e per questo immagina il ricongiungimento del defunto alla collettività di Eywa (la dea natura): l’individuo ha sì restituito il proprio corpo, ma per continuare a vivere come spirito, in comunione con tutte le altre soggettività, anche animali.
La favola di Cameron dunque non riesce ad essere una “fedeltà alla terra” nel senso di Nietzsche, perché in Nietzsche l’individuo sarebbe semplicemente morto (insieme a ogni divinità). D’altra parte però è pur vero che se i Na’vi vivono in qualche modo “il paradiso” lo possono fare unicamente attraverso una sorta di “fedeltà alla terra”, nel senso appunto dell’ecologia!
Mi chiedo se sia davvero possibile, senza cadere in semplificazioni un po’ naif, vivere la morte come un’esperienza non traumatica e a quali condizioni.
Mi ha sempre colpito una frase enigmatica del libro della Sapienza:

“La morte è entrata nel mondo per invidia del Diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sapienza 2,24).

Che cosa significa?
Difficile dare una risposta semplice. Però mi colpisce quel “ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”. Come a dire che “se tu appartieni al male” farai esperienza della morte, altrimenti no!
Verrebbe da commentare: “E’ assurdo! Non facciamo forse TUTTI esperienza della morte?”. Secondo il passo di Sapienza no! Solo quelli che appartengono al male ne fanno esperienza. Gli altri – e provo ad interpretare – sebbene muoiano biologicamente, fanno un’esperienza diversa!
Nell’immaginario di Avatar, sarebbe il rispetto dell’ecologia a discriminare i due versanti; dal punto di vista biblico invece, la discriminante è la santità: in una vita che noi non definiremmo semplicemente “ecologica” ma “santa”, la morte biologica non dovrebbe essere più un’esperienza traumatica e devastante.
Tutto questo – per un credente – può essere verosimile?
Come non rispondere affermativamente, pensando alle bellissime parole del cantico di san Francesco d’Assisi?

Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare…

Per approfondire comunque, ti propongo una riflessione più ampia, tratta da un recente testo di Carlo Maria Martini:

“Ho detto qualche volta che per molti anni mi sono lamentato così col Signore: tu hai creato il mondo, ci hai fatto doni bellissimi, sei morto per noi, ma non hai abolito la morte. Che cosa ti costava eliminarla? (…)
Col passare del tempo ho cambiato parere, soprattutto accostando i testi del teologo Ghislain Lafont, che ha scritto libri molto belli su questa tematica. Sono così giunto alla convinzione che effettivamente la morte è necessaria, proprio perché ci permette di realizzare quell’abbandono di fede che è veramente, assoluto, totale, senza rete, senza nessuna uscita di sicurezza. Se non ci fosse la morte, non saremmo mai costretti a compiere un atto di completa consegna di noi stessi a Dio; con la morte siamo obbligati a fidarci incondizionatamente di Lui. (…) in questa morte il Signore ci chiama ad abbandonarci a lui per darci la vita. E questo corrisponde alla natura dell’uomo: raggiungiamo l’umanità vera soltanto giocandoci nella fede.
(…) col peccato (la morte) era diventata segno della maledizione e dell’abbandono da parte di Dio, e in Cristo diventa segno e possibilità di abbandono di noi stessi al Padre”.

Il coraggio della passione, Carlo Maria Martini, Piemme, 2008, pag. 162

Interessante.
La morte, intesa come passaggio biologico di tutti gli esseri viventi, non è considerata un incidente di percorso, magari non previsto all’origine, come tanta teologia ha affermato per secoli, ma un momento sintetico, in cui tutto ciò che ci è stato donato e che siamo diventati, possiamo restituirlo totalmente.
Credo che questa consapevolezza non sia un traguardo di tutti: sarebbe davvero naif presumere il contrario; non so nemmeno se sarà il mio traguardo personale, ma è molto “forte” leggere queste parole sulla morte, dalla penna di un uomo ormai anziano, che non ha paura di scriverle “sulla sua pelle”.
Dunque sì, è molto evangelica in definitiva, l’idea di una vita che è tutta da riconsegnare, magari non così come l’abbiamo ricevuta, ma nella ricchezza di tutto quello che l’avventura della vita ci ha fatto sperimentare.

E l’ecologia? Non credo che sia sufficiente a beatificare l’esperienza umana, ma è ormai chiaro che è quantomeno necessaria, perché continui almeno ad ESISTERE una vicenda umana!!
Per questo è fondamentale che restiamo assolutamente fedeli alla gigantesca pietra ambulante alla quale il destino dell’umanità e di ogni creatura è strettamente legato, che si chiama “terra”.