Giu 152018
 

 

Dall’altra parte della mano tesa
del petalo della foglia della rosa
dell’aria azzurrina e del nembo
del fulmine sghembo tra la pioggia
tutto è pazienza e attesa
che ribalti la pietra pasquale
il lato tombale delle cose
dall’altra parte il vero disegno
il volto luminoso
il regno il regno il regno.

Bartolo Cattafi – Dall’altra parte

Da tanto ormai associo la Pasqua a qualcosa di profumato, di pulito, di nuovo. È come appunto se tutta la terra si scrollasse di dosso il vecchiume accumulato nell’inverno e riprendesse a sorridere. Fiori, profumi e colori che dalla terra si mischiano all’anima e la spronano a correre con rinnovata energia. Per questo sotto il crocifisso che tengo in taverna ho appeso due farfalle: “profumo di resurrezione” rispondo a chi mi chiede spiegazioni.

Ora ho trovato un articolo dove Ravasi parla di Isaia 26, 14-19: “I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno: sì, tu li hai puniti e distrutti e fatto svanire ogni loro ricordo…  Di nuovo vivranno i tuoi morti. I cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre”.

Dice dunque Ravasi: “I metîm, i “morti” dell’apertura del canto, i refa’îm, le “ombre”, che si presentavano nel loro truce e cupo aspetto di defunti per sempre, di nuovo ritornano alla vita. La terra che prima era un sepolcro che inghiottiva e polverizzava il vivente ora si trasforma nella madre terra. Al grembo-tomba della scena precedente si sostituisce un grembo vitale e fecondo.
Sulle ossa degli scheletri e sulla polvere della carne dissolta scende una tal ‘ôrot, letteralmente una “rugiada di luci”: essa rivitalizza quella terra che era stata divoratrice delle creature viventi perché è talleka, è “la tua rugiada”, cioè il principio di vita effuso dal Creatore. Acqua (rugiada) e luce sono simboli divini che vengono effusi sulla nostra mortalità per aprirla alla vita”.

Io trovo fantastica questa immagine di miliardi di microscopiche goccioline luminose che simboleggiano lo spirito divino capace di dare inizio alla resurrezione, la nostra futura resurrezione. E trovo grande la considerazione della terra come grembo vitale e fecondo (come in effetti è ogni terreno vangato e dissodato a primavera, pronto per la semina), non più solo sepolcro.

Ed è per questo che parlando di luci, terra primaverile e profumi mi è sovvenuto che anche Dante, a un certo punto nel Canto XXX  del Paradiso, ha questa visione degli angeli e dei santi simili a scintille di luce e a fiori:

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettìen ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;

poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

Fulgore, primavera, faville, fiori, oro, inebriate, odori: è proprio un paradiso, come anticipato dalla visione di Isaia e dalla resurrezione di Gesù.

Maco

Feb 152016
 

Lattea

In my place, in my place
Were lines that I couldn’t change
I was lost, oh yeah
I was lost, I was lost
Crossed lines I shouldn’t have crossed
I was lost, oh yeah

If you go, if you go
Leave me down here on my own
Then I’ll wait for you, yeah

Coldplay-In my place

 

“Il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo […]? Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.

Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”?
Una prima risposta ci è suggerita dalla neurofisiologia della visione. Che cosa avviene quando ci troviamo in un ambiente privo di luce, o quando chiudiamo gli occhi? Che cos’è il buio che allora vediamo? I neurofisiologi ci dicono che l’assenza di luce disinibisce una serie di cellule periferiche della retina, dette, appunto, off-cells, che entrano in attività e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo il buio. Il buio non è, pertanto, un concetto privativo, la semplice assenza della luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina.

Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte  dell’ombra, la loro intima oscurità.

Con questo, non abbiamo tuttavia ancora risposto alla nostra domanda. Perché riuscire a percepire le tenebre che provengono dall’epoca dovrebbe interessarci?
Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.

Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle risplendono circondate da una fitta tenebra. Poiché nell’universo vi è un numero infinito di galassie e di corpi luminosi, il buio che vediamo nel cielo è qualcosa che, secondo gli scienziati, necessita di una spiegazione. È appunto della spiegazione che l’astrofisica contemporanea dà di questo buio che vorrei ora parlarvi. Nell’universo in espansione, le galassie piú remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce.

Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rariE per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi.

Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare.”

Agamben-Che cos’è il contemporaneo

 

Che questa Quaresima ci renda coraggiosi, capaci di tenere fisso lo sguardo nel buio che ci circonda e di scorgervi quelle luci che, noi lo sappiamo, ci raggiungono. Il nostro appuntamento c’è già stato, e non è ancora finito.

Anzi, è infinito.

Maco

Giu 292015
 

gemma

I got dust on my shoes, nothing but teardrops
 You’re missing

I passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli
Sal 56

 

Come posso parlare, di fronte alla morte?
Come vivere passo dopo passo, normalmente, sapendo che altri sono nel lutto?
Come mitigare il loro cordoglio?

Ho un pudore verso il dolore che mi blocca, anche nei pensieri. L’ho sempre vissuto da solo, anche se negli amici ho trovato un porto sicuro. Ma non sono capace di consolare, di varcare la soglia dell’intimità altrui, per farmi carico di un po’ del loro dolore.

Fino a quanto posso spingermi? Anzi: posso farlo? Io non ho questa capacità. La morte ci è connaturata, ci permea ogni istante, basta solo prestarle attenzione.

So che la morte di un famigliare e di un amico lascia un vuoto eterno, che segnerà la vita dei presenti fino alla loro morte. Niente riporterà il tempo indietro. Nessuno potrà colmare il vuoto. Un’assenza che come migliaia di ami strappa la carne della memoria e lascia un dolore costante, che diventa una discordante nota di sottofondo nella nostra vita quotidiana.

Tornerò alla mia tavola, a mangiare, mentre altri piangono. Tornerò a leggere, a giocare, a lavorare. Per altri, nulla è più lo stesso di prima.

Tante domande, che ruotano soprattutto attorno a quel che avrebbe potuto essere nel tempo futuro e che da oggi non sarà più. Quanto il nostro legame si sarebbe rafforzato, sarebbe diventato condivisione e infine amicizia?

È uno sforzo terribile, guardare oltre questo buio per raccogliere semi di speranza per un tempo futuro, non certo per adesso. C’è nel mio libro questa voce forte che dichiara “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”.

Basta morte, basta lutto, ti prego. Vorrei solo una piccolissima visione, percepire un frammento di quell’ ecco, io faccio nuove tutte le cose, e tenermelo vicino al cuore.

Maco

Giu 012012
 

Gioele 3,1

Dopo questo,
io effonderò il mio spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni.

Prima l’ho sentito. Il terremoto.
Al secondo piano di una palazzina milanese. La mente cerca di rassicurarsi: “Non è qui vicino. Niente panico”. Ma subito il pensiero corre lontano: dove allora? E forte quanto? Chi si è fatto male?
Corro a casa, in cerca di informazioni: ho bisogno di vedere, sono preoccupato.
E quindi due giorni di Tg, letture, pensieri. Anche preghiere.
Ieri sera infine mi sono messo a cercare non-so-cosa curiosando nei siti di Vasco e del Liga: loro sono nati lì. E poi, quando sono finite le parole si comincia a cantare. Lo abbiamo fatto per l’Abruzzo, adesso viene automatico.
Non credevo certo di trovare canzoni ma ero sicuro che almeno un post l’avrei trovato. E così è stato.
Sul Facebook di Ligabue un pezzo tutto nel suo stile: immediato, efficace. Mi ha colpito un’espressione folgorante: “la paura ti si piazza dentro”. Da brivido. Viene in mente la forza che apre la strada a una crepa.
Sul sito di Vasco invece ho letto un articolo di Roberto Roversi pubblicato su un quotidiano di ieri. La mia riflessione comincia da lì:

Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare. Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c´è esempio uguale.

Roberto Roversi: “La mia terra ferita” (La Repubblica 31.05.12 – testo raccolto).

Ricostruire.
In questi giorni più che mai, mi sembra un verbo buono per esprimere il segno della nostra vita umana.
Perché dopo un terremoto è ancora più evidente che “costruire” è prerogativa dell’eternità. A noi mortali è dato invece di ricostruire, facendo i conti con il limite che contraddistingue noi e le nostre cose, il nostro spirito e la produzione di senso che continuamente accompagna ciò che creiamo.
Però quanto è difficile accettare la logica di una continua ri-partenza! E’ così forte l’illusione di onnipotenza che le macerie fanno davvero male e lasciano dentro una paura dannata.
Si comincia a spostarle, quasi si fosse vittime di una coercizione a ricreare l’ordine, il cosmo. Ma poi, – ammesso che ci si riesca – sarà così semplice cominciare daccapo? E ricominciare bene per giunta?

Ha ragione Roversi: serve una visione.
Una visione larga, del futuro.
Però non come quelle dei visionari…
Serve la visione dei profeti: scomoda, tagliente, coraggiosa.
Una visione che fa i conti con la realtà, ma non si affida semplicemente a quelli, perché sa che tanto non tornano.
Servono dei profeti: gli unici che sanno difendersi dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.