Giu 092015
 

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Direi che nella perfetta amicizia questo “amore di apprezzamento” è spesso così grande  e così saldamente radicato, che ogni membro del circolo, nel profondo del suo cuore, prova un senso di umiltà nei confronti degli altri.
A volte egli si chiede persino che cosa stia facendo in mezzo a gente così evidentemente migliore di lui, e si reputa fortunato oltre i suoi meriti di far parte di quella compagnia. Ciò avviene specialmente quando il gruppo al completo è riunito, e ciascuno riesce a mettere in luce quello che di meglio, di più saggio, di più divertente vi è negli altri.

Quelli sono gli “incontri  d’oro”, quando quattro o cinque del gruppo, dopo aver fatto una lunga passeggiata, arrivano alla nostra locanda; quando si può stare con le pantofole ai piedi, e allungare questi verso la fiamma del camino, con accanto a noi qualcosa da bere; quando tutto il mondo, e anche qualcosa che si estende oltre questo mondo, si apre davanti alla nostra mente, mano a mano che parliamo.
Nessuno avanza pretese sugli altri, né sente alcuna responsabilità nei loro confronti; ci sono tutti uomini liberi e alla pari, come se ci fossimo incontrati soltanto un’ora prima; nello stesso tempo, sentiamo intorno a noi il calore di un affetto maturato con gli anni. La vita – la vita terrena – non ha dono più grande da offrirci.

                Lewis – I quatto amori

Aspettando un amico che è da …, vediamo, più o meno quindici anni che non ci incrociamo, il tempo ha cominciato a giocarmi strani scherzi.
La memoria mi ha riportato, spesso imprevedibilmente, in qualsiasi momento del giorno, durante il lavoro e il gioco, a quanto insieme abbiamo vissuto per diversi anni. Il desiderio di rivederlo e riabbracciarlo è così forte che spesso mi sono ritrovato a sorridere come un ebete, tra me e me, con la Bea che subito: “Papà, cos’hai da ridere?”.

Cos’ho? Il cuore pieno di storie belle da ri-cor-dare (riportare al cuore); una gioia pura per quello che insieme abbiamo vissuto nello studio, nel gioco, negli affetti; una inevitabile ma leggera malinconia per quegli anni di “tempo sospeso” del liceo; il desiderio mentre parleremo di aprire davanti alla nostra mente anche qualcosa che si estende oltre questo mondo.

Domani ci rivedremo, ognuno di noi con nuove ferite da condividere, più rughe sulla fronte, meno capelli in testa, svariati aneddoti da raccontarci. Il tutto condito da quel fuoco indimenticabile che ci porta sempre a guardare al nostro vissuto con stupore. E so anche con certezza che sentiremo intorno a noi il calore di un affetto maturato con gli anni.

Davvero, questa vita non ha dono più grande da offrirci.

Maco

Ago 282011
 


Che cosa ti sei fatto?
E’ la classica domanda a cui devi rispondere mille volte, quando il tuo corpo si porta addosso una ferita. La risposta viene fuori controvoglia perché la cicatrice dice un vissuto che si vorrebbe dimenticare: un vissuto doloroso.
Infatti l’altra domanda tipica è: “Mi rimarrà il segno?”.
Dopo aver visto l’ultimo film della saga di Harry Potter, pensavo alla ferita di Harry.
Mi colpisce la sua ambiguità: è una cicatrice che duole e porta in se stessa la commistione con il male che Harry ha tragicamente sperimentato quando era appena nato, ma è anche il segno di un atto d’amore che ha l’ultima parola sul male (“una magia più misteriosa e più antica” come la definisce Silente).

Quella di Harry è solo una favola, ma tutte le favole hanno a che vedere con la realtà, e di fatto mi è capitato di incontrare persone che si portano dentro quello stesso genere di cicatrici: i segni di un’esperienza negativa a cui però l’amore ha tolto l’ultima parola.
Senza quei segni, nemmeno l’amore avrebbe più voce.
Nella tradizione cristiana è chiarificante il racconto delle apparizioni di Gesù risorto ai suoi discepoli. Si dice:

“La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù (risorto), si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”.

Vangelo di Giovanni (20,19-20)

Mi sono sempre chiesto perché in quella risurrezione i segni del male non sono stati eliminati…
Ho capito solo più tardi che la domanda era superficiale. Avrei dovuto immedesimarmi di più nell’apostolo Tommaso che chiede di metterci il dito in quelle piaghe; allora sì che avrei capito subito che per lui non si trattava semplicemente di confermare l’identità del risorto ma di riconoscere e credere nel prevalere dell’amore.
Per questo le ferite rimangono: senza di esse, paradossalmente, non si potrebbe più capire e credere all’amore.