Apr 282016
 

 

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“E’ sciocco parlare di quanti anni dovremo passare nelle giungle del Vietnam, quando potremmo asfaltare l’intero paese, dipingerci sopra le strisce di parcheggio e tornare a casa prima di Natale” 

R. Reagan -1965

Some folks inherit star spangled eyes,
Ooh, they send you down to war, Lord,
And when you ask them, “How much should we give?”
Ooh, they only answer More! More! More! 
It ain’t me, it ain’t me, I ain’t no military son, son.
It ain’t me, it ain’t me; I ain’t no fortunate one, one.

Creedence Clearwater Revival – Fortunate Son

 

C’è nella foto di Huet tutta la disperazione di un ragazzo che inutilmente ha tentato di riportare in vita il suo compagno. Ecco un’immagine così carica di impotenza da essere quasi insostenibile. Nessun orrore o nessuna crudeltà mostrati in maniera oscena. Ma sono più di mille pugni nello stomaco.

Mi hanno affascinato i libri scritti dai reduci di quella guerra, per vari motivi. Penso che il motivo più forte sia stata la curiosità di scoprire come questi giovani avessero riletto quella esperienza così sconvolgente. Poter accedere ad una riflessione diversa da quella filmica, troppo veloce e emotiva. Toccare la ferita di una guerra che è durata fino alla mia nascita, una ferita mai del tutto rimarginata nella coscienza dell’Impero. Ci sono libri stupendi, da cui emerge tutto quell’ universo stravolto, le sue conseguenze durevoli, i suoi semi avvelenati.

Riflessioni strazianti, testimonianze tremende, libri, film, canzoni indelebili, foto. Eppure ancora oggi l’America ripete se stessa, perché per essere “ the greatest country in the world” finisce per essere inchiodata al suo eterno ruolo di Medea.

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Maco

P.s.: bellissimo e amaro il libro di Mahè e Rapaud, Eroi del fotogiornalismo, grazie al quale ho riscoperto foto come queste e ho conosciuto le vite di chi le ha scattate.

 

Ago 312013
 

Mentre macinavo miglia su miglia tra California, Nevada, Utah e Arizona, insieme ad un amico e a quella musica che nei viaggi così non può assolutamente mancare, mi sono imbattuto in questo brano di Niccolò Fabi.
Da lontano ho pensato al nostro paese, ancora una volta.
E mi veniva in mente quell’espressione che immancabilmente trapela quando si mettono a confronto l’Italia e il gigante americano: “noi abbiamo la storia”.
Vent’anni fa, al termine del liceo classico, quando sono stato negli States per la prima volta, questo “lack” di storia, di passato e di età, l’ho percepito chiaramente. Ora però mi chiedo se la storia che abbiamo noi non sia destinata a corrompersi e ad andare perduta dal momento che non viene continuamente raccontata.
Sono “orfano di origine e di storia” dice Fabi nella sua canzone.
Orfano è il termine esatto, perché “chi racconta una storia” è per definizione il più anziano, il nonno, il padre… e se si è persa la storia significa che si è perso chi doveva riconoscere in sé una paternità e cominciare a raccontarla.
Negli States, per quanta poca storia abbiano, questo racconto invece c’è e si vede, ed è proprio la sua potenza ad affascinarci tanto! Come dice Baricco:

“Questa è l’America. E non è la fesseria che sembra. C’è qualcosa di straordinario in questo decidere, tutti insieme e una volta per tutte, che quella è una cosa straordinaria: ed essere capaci di farla diventare straordinaria. E’ un modo di creare un’epica della vita che non ha paragoni. Questi riescono a creare il mito partendo dal quasi nulla. Una bevanda gassata con caffeina e coca dentro, un giro di accordi che chiami rock, un’autostrada, un gioco in cui colpisci una palla con una mazza e poi corri più veloce che puoi, un uomo qualunque che però diventa presidente (…). Non importa cos’è veramente tutta questa roba. Gliela metti in mano e diventa mito. Sono i professionisti della meraviglia”.

Alessandro Baricco, Barnum, Feltrinelli, 2006, pag. 163-164

E il nostro racconto dov’è? Noi che di meraviglie ne abbiamo tante, sparse nello spazio e nel tempo di generazioni? Abbiamo perso l’amore di raccontarle.
La canzone di Fabi d’altra parte ha una forza tutta sua perché butta fuori il lamento di chi una narrazione la intravvede a stento, soffrendone la mancanza, ma allo stesso tempo racconta un miracolo antico già espresso nei miti di Romolo e Remo, e addirittura nel testo biblico:

“Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto.”

Salmo 26,10

E’ il miracolo per cui in qualche modo l’orfano si salva, e tira fuori in questo caso un desiderio forte: “mi piacerebbe essere padre”, padre di una buona idea, e quindi padre del futuro.
Credo siano in tanti a condividere gli stessi sentimenti dell’artista e che egli ne parli ci fa bene, perché è il primo passo, quello giusto: da qui, muoviamo anche noi.
Mi viene in mente il passaggio di un libro che ha dato origine ad un famoso film, nel quale un padre che per tutta la vita ha raccontato storie al figlio, gli dice prima di morire:

“Se io ti avessi parlato di tutti i miei dubbi… su Dio, sull’amore, sulla vita e sulla morte, adesso ti ritroveresti solo con un bel mucchio di dubbi. Invece così, pensa a quante barzellette divertenti conosci”.

Edward Wallace, Big Fish (citazione in A. Spadaro “L’esperienza della letteratura”).

Sarà bene riprendere il racconto, e che chi ha qualcosa da raccontare rinunci per una volta a condividere i dubbi e le incertezze per lasciare spazio a qualche storia.
Chissà che non salti fuori… qualche buona idea!