Mag 242019
 

Gli amici del giro di Darl Vanzard non erano difficili da individuare. Erano ragazzi ricchi e vivevano nell’East End; erano stati respinti alla A&M del Texas, si erano trasferiti in un college di contea o avevano cominciato a lavorare nelle aziende che avrebbero ereditato. Ma a definirli veramente era uno strano atteggiamento egocentrico nei confronti del prossimo. In pubblico erano agitati, chiassosi e insensibili, indifferenti alle ferite che le loro parole potevano causare a coloro che si trovavano al di fuori del loro perimetro. Correvano troppo al volante delle loro automobili, senza rispettare gli stop e i segnali luminosi, senza mai riflettere sul nesso fra la loro avventatezza e il pericolo che causavano arbitrariamente alle esistenze altrui.

Parlavano con accento locale, ma avevano sciato in Colorado e fatto surf in California, e giocavano a golf e a tennis in un Country club nel quale i neri e i messicani raccoglievano i loro rifiuti dai green e i loro asciugamani sudati dai campi come se quella fosse la funzione naturale dei poveri. La loro insensibilità era quasi una forma di innocenza. Se fossero stati sgridati per il loro comportamento probabilmente non avrebbero capito la ragione del rimprovero.

James lee burke – Terra violenta

Ho appena letto un bell’articolo dove si racconta l’incontro fra Sergio Cusani e Gherardo Colombo, invitati a parlare in una scuola superiore a Sesto S. Giovanni. La giornalista scrive:

Cusani racconta ai ragazzi di aver maturato in carcere la consapevolezza di un meccanismo di smottamenti progressivi: “Le micro scelte in apparenza insignificanti, che durante il periodo formativo uno compie autoassolvendosi perché così fan tutti, aprono una breccia. Poi nella maturità diventano macro scelte. Ti dicono: “Il tuo obiettivo è quello” e tu, che ti sei abituato a pensare che il fine giustifichi i mezzi, fai di tutto per raggiungerlo. Dopo quello che ho attraversato ho cambiato il mio paradigma: il fine non giustifica i mezzi, come teorizzava Machiavelli, sono i mezzi a dare senso al fine. L’ ho imparato da un grande filosofo italiano: Giorgio Agamben. Diversamente giustifichi tutto: dalle stragi naziste, alle purghe staliniane”.

C’è un continuo lavorìo che dobbiamo compiere su noi stessi. Si tratta di scelte quotidiane che accompagnano la nostra storia e riguardano realtà anche minime, insignificanti. Eppure, come piccoli mattoni, uno dopo l’altro costituiscono le fondamenta del nostro sentire e agire morale. Mi meraviglio sempre delle reazioni oscene e impregnate di violenza che spesso si trovano sui social. Forse molto dipende dall’inesistenza di queste fondamenta costruite con pazienza e sacrifici.

E spesso mi trovo davanti ragazzi che non hanno consapevolezza del loro agire e del male possibile che potrebbero arrecare ad altri. Un male che potrebbe segnare chi li circonda e segnare loro stessi per molto tempo. Dice Colombo che: “Percepii presto che una trasgressività così estesa, capillare e articolata non poteva essere risolta con lo strumento della repressione penale. Prova ne è il fatto che Mani pulite non ha marginalizzato la corruzione. Cusani è stato tra i pochi a scontare in carcere la pena: altri si sono resi irreperibili o sono finiti prescritti, altri assolti perché le leggi erano cambiate nel frattempo. Per quanto lavorassimo non si arrivava in fondo. Con il tempo mi sono convinto che il problema fosse a monte dei tribunali: un po’ come quando un idraulico che ripara un rubinetto, non trovando il guasto, risale all’impianto centrale. Credo che il nostro “centrale” sia la relazione che le persone hanno con le regole: se non risolvi quello la giustizia non funziona. Per questo vado tanto nelle scuole”.

Spesso nei ragazzi che ho davanti manca la capacità di percepire il limite. Cioè la sensibilità di riconoscere la presenza di linee di demarcazione che non vanno superate. Certo è una questione di età: ci provano, sfidano gli adulti, cercano di definirsi nel confronto/scontro con i grandi. Ma è anche una questione di educazione: nessuno ha mai fatto capire loro l’inviolabilità di certi confini. Nessuno ha mai risposto, anche con durezza se necessario, alle loro trasgressioni distruttive. È come se fossero stranieri in se stessi e per questo costantemente squilibrati nei rapporti con gli altri. Nessuno ha mai mostrato/dimostrato loro cosa significa essere responsabili: è come se gli adulti d’innanzi alle loro faticose sfide e richieste quotidiane siano evaporati.

Nessuno che gli abbia insegnato, come dice Colombo, che “Non c’ è libertà senza responsabilità” .

Maco