Dic 212015
 

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In these bodies we will live, in these bodies we will die
And where you invest your love, you invest your life
Awake my soul
Awake my soul
You were made to meet your maker
You were made to meet your maker

Mumford & Sons

 

Sbarco all’aeroporto di Lusaka dopo ore di aereo e sudore. Per me rimane ancora un mistero il fatto che una scatola di metallo riesca a volare, senza schiantarsi in terra come regola normale della sua esistenza.

Arrivo da Milano e mi controllano se ho l’Ebola. Un bello spot anche se un po’ illogico, tanto più che alla mia partenza nessuno si preoccuperà di niente. In un mondo dove finalmente sono io ad essere il diverso, la voce di Paolo che mi chiama aldilà del punto d’ingresso mi riempie di gioia. Eccoci insieme per i prossimi 16 giorni.

Sarebbe sterile ripercorrere giorno per giorno quello che ho vissuto. E quindi trascrivo solo due considerazioni  (fra le tante) che mi sono sedimentate dentro.

In questi giorni e mesi sono davvero troppi gli scandali che riguardano la chiesa nella sua struttura gerarchica sull’uso e la gestione del potere e del denaro (spesso mi sono chiesto per questi sacerdoti, e mi piacerebbe chiederglielo di persona,  dove hanno smarrito la loro originaria vocazione di chiamati a servire Dio e il prossimo, dove le incrostazioni dell’ambizione e delle compensazioni affettive hanno strozzato il cuore e lo slancio di quando hanno promesso la loro totale dedizione al Vangelo). Con don Paolo siamo andati dopo due giorni dal nostro arrivo nella banca più “vicina” al villaggio rurale dove lui svolge il suo ministero. Ne è uscito dopo un’ora e mezza dicendo “Bene, con questo ho già finiti tutti i soldi che mi sono portato dall’Italia”. Già dispersi nei mille rivoli del sostegno concreto verso ragazzi e ragazze (che studiano e devono pagarsi le tasse, l’affitto, il cibo), verso orfani e vedove. “Quando tornerò in Italia fra qualche anno, il mio conto in banca sarà di sicuro in rosso”. Eh beh…, con buona pace dei vari Bertone, abati di Montecassino e preti brianzoli che vanno in crociera dicendo d’essere in ritiro spirituale.

Mi sono sentito a casa. Ho ritrovato amici di venti o più anni fa, con i quali la relazione è stata semplice immediata e sciolta. Avevo paura di essere un peso o disturbare, invece mi sono sentito pienamente accolto nella loro vita quotidiana. Uomini di una enorme disponibilità: ho partecipato alle loro discussioni, ho condiviso le loro riflessioni sulla loro vocazione missionaria, le loro critiche sul loro stesso operato. Mi hanno sopportato con molta gentilezza e spesso mi hanno fatto partecipe delle loro difficoltà e di ciò che li rende orgogliosi. Ho conosciuto l’Africa? Neanche per sogno. Nemmeno un poco. Ma ho avuto la grazia di ritrovare amici che non chiedono altro di annunciare ciò che li ha fatti innamorare decenni fa. E lo fanno fra difficoltà e gioie, come ogni buon padre di famiglia, spendendosi fino in fondo perché la vita di coloro che amano sia piena.

Maco

Giu 092015
 

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Direi che nella perfetta amicizia questo “amore di apprezzamento” è spesso così grande  e così saldamente radicato, che ogni membro del circolo, nel profondo del suo cuore, prova un senso di umiltà nei confronti degli altri.
A volte egli si chiede persino che cosa stia facendo in mezzo a gente così evidentemente migliore di lui, e si reputa fortunato oltre i suoi meriti di far parte di quella compagnia. Ciò avviene specialmente quando il gruppo al completo è riunito, e ciascuno riesce a mettere in luce quello che di meglio, di più saggio, di più divertente vi è negli altri.

Quelli sono gli “incontri  d’oro”, quando quattro o cinque del gruppo, dopo aver fatto una lunga passeggiata, arrivano alla nostra locanda; quando si può stare con le pantofole ai piedi, e allungare questi verso la fiamma del camino, con accanto a noi qualcosa da bere; quando tutto il mondo, e anche qualcosa che si estende oltre questo mondo, si apre davanti alla nostra mente, mano a mano che parliamo.
Nessuno avanza pretese sugli altri, né sente alcuna responsabilità nei loro confronti; ci sono tutti uomini liberi e alla pari, come se ci fossimo incontrati soltanto un’ora prima; nello stesso tempo, sentiamo intorno a noi il calore di un affetto maturato con gli anni. La vita – la vita terrena – non ha dono più grande da offrirci.

                Lewis – I quatto amori

Aspettando un amico che è da …, vediamo, più o meno quindici anni che non ci incrociamo, il tempo ha cominciato a giocarmi strani scherzi.
La memoria mi ha riportato, spesso imprevedibilmente, in qualsiasi momento del giorno, durante il lavoro e il gioco, a quanto insieme abbiamo vissuto per diversi anni. Il desiderio di rivederlo e riabbracciarlo è così forte che spesso mi sono ritrovato a sorridere come un ebete, tra me e me, con la Bea che subito: “Papà, cos’hai da ridere?”.

Cos’ho? Il cuore pieno di storie belle da ri-cor-dare (riportare al cuore); una gioia pura per quello che insieme abbiamo vissuto nello studio, nel gioco, negli affetti; una inevitabile ma leggera malinconia per quegli anni di “tempo sospeso” del liceo; il desiderio mentre parleremo di aprire davanti alla nostra mente anche qualcosa che si estende oltre questo mondo.

Domani ci rivedremo, ognuno di noi con nuove ferite da condividere, più rughe sulla fronte, meno capelli in testa, svariati aneddoti da raccontarci. Il tutto condito da quel fuoco indimenticabile che ci porta sempre a guardare al nostro vissuto con stupore. E so anche con certezza che sentiremo intorno a noi il calore di un affetto maturato con gli anni.

Davvero, questa vita non ha dono più grande da offrirci.

Maco

Apr 202015
 

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Una giornata di grazia, con le classi di Prima Media. Sopra Lecco, accompagnati da alcune guide della  sezione locale del CAI, ci siamo snodati lungo il sentiero didattico da loro gestito.

Il  tempo è stato perfetto, i ragazzi hanno ascoltato, giocato, mangiato e riordinato. Non un pianto, non un richiamo. Una giornata così normale da risultare eccezionale nel suo svolgersi. Per ciascuno di loro è stata di sicuro una esperienza di “buon stare insieme”: liberi, felici, fra amici.

Ad un certo punto, una di loro, dopo aver giocato e riso insieme mi dice (ben sapendo che il prof è sposato e ha due figlie):

– Prof! Lei dovrebbe fare il prete.
– Cioè Marianna…?
– Perché tutti i preti sono simpatici.

Grazie Dio: dalle mie parti i preti sono visti così dai ragazzi.
Simpatici, e come persone associate alla gioia e ai momenti belli.

Maco

Mar 012012
 


Adesso abito a due passi dal Corso Buenos Aires, il viale con la massima concentrazione di negozi al mondo: mille vetrine disseminate in un chilometro e seicento metri di lunghezza.
Praticamente una tappezzeria. Con la sola differenza che le tappezzerie fanno risaltare quel che c’è davanti, mentre le vetrine accendono i riflettori su quel che c’è dietro. Sono fatte per farsi guardare insomma… e se vuoi presentare al meglio la merce in vendita, devi mettercela lì nel modo migliore possibile! Così la gente prima guarda, poi compra.
Pensavo ad un racconto del Vangelo sul quale mi sono soffermato poco tempo fa.
Si parla di due persone molto diverse tra loro che vanno nello stesso posto: il tempio. Lì uno si mette in fondo, senza aver quasi il coraggio di alzare la testa, e non smette di chiedere perdono a Dio per chissà quanti errori commessi. L’altro è un praticante, talmente ligio ai suoi doveri che non smette di ringraziare Dio per quanto è bravo! Che sia davvero bravo non c’è dubbio: digiuna il doppio del dovuto, paga il doppio delle tasse. Insomma: è un mostro!
Ringrazia Dio perché lui non è come gli altri, perché è al top della categoria e soprattutto perché è meglio di quello là che sta proprio vicino a lui (il prossimo) qualche “panca” più in fondo.
Secondo Gesù colui che è uscito dal tempio “giustificato” e cioè “approvato” da Dio non è il praticante perfetto ma l’altro, quello che se ne stava in fondo a chiedere perdono.
Pensavo al perché di questa sentenza di Gesù. La ragione profonda – mi son detto – non può essere semplicemente la condanna di chi si sente migliore degli altri; mi sembra troppo poco. Mi sembra già una conseguenza ma non la radice del problema.

E’ lì che ho pensato alle vetrine di Baires.
Pensavo al pubblico che hanno; alle migliaia di persone che ci passano ogni giorno. E’ un pubblico di tutto rispetto che giustifica una vetrina ben allestita e ben pensata. E’ un pubblico di tutto rispetto ma si potrebbe fare di meglio: per esempio comprando uno spazio televisivo e pubblicizzando un prodotto non più a diecimila ma a un milione di persone! Costa, ma si può fare!
Più di così si può? Più in grande di così si arriva? Beh per chi ci crede un pubblico più importante dei telespettatori in prima serata in effetti c’è. Ad essere precisi si tratta di un pezzo grosso più che di un pubblico, ma è un pezzo talmente grosso che se la vetrina la vede lui, il resto dei passanti può anche passare inosservato.
Per chi ci crede c’è uno spettatore assolutamente eccezionale davanti alla vetrina del proprio ego, e lo spettatore si chiama Dio.
Che cosa sei disposto a pagare per trasformare la tua vita in una vetrina splendente e vendere te stesso a Dio?
C’è chi è disposto a pagare tutto, proprio come il praticante perfetto della storiella di Gesù. Le sue opere da fuoriclasse in fondo hanno un’unica finalità: farsi comprare da Dio. Ma il commercio di se stessi ha un solo nome: prostituzione… e la vetrina allestita apposta, per dire a Dio: “Comprami! Sceglimi! Prefererisci me!” non interessa a Dio, perché Dio non ti compra, Dio ti ama.
Dunque secondo Gesù, il bene, per essere un bene, non si compie se non per amore. Le altre motivazioni presuppongono un’idea perversa di Dio e non rendono giusto nessuno perché il meccanismo che le muove è radicalmente malato.
E’ paradossale che anche il bene possa essere una tentazione vero? Se ci penso tuttavia non lo è poi così tanto, considerando che la cosa più difficile per l’uomo non è credere semplicemente in Dio o nella sua esistenza, ma credere che questo Dio ci ama anche se noi non ce lo meritiamo.