Ott 182022
 

Si è vecchi quando domani è già ieri
Arthur Journo

Mi sono imbattuto di recente in questa frase, tratta dal diario di A.J. pubblicato con il titolo “il ribelle”.
Non so se capita anche a voi, ma a volte certe parole e soprattutto certe frasi di un respiro un po’ più ampio, girano come foglie autunnali nella testa, posandosi qua e là su quel che viviamo, a volte per restare definitivamente incollate sul terreno di certi avvenimenti, altre per essere di nuovo sollevate nel vento e portate da qualche altra parte.
Nell’aria pesante di questa settimana, in cui le nubi dense di una guerra sempre più delirante si accumulano all’orizzonte, queste parole si sono posate nel fango di certezze sempre più fragili e sempre più balbettate, come quella di un mondo illuminato dalla ragione, o anche solo dall’esperienza.
Invece della speranza e della fiducia, si fanno strada domande sempre più pressanti e inclementi: noi, civiltà matura e consapevole del passato, abbiamo davvero imparato qualcosa dalla storia? Oppure saremo sempre destinati a compiere gli stessi errori?
“We never change. Do we?” recita un brano dei Coldplay in una canzone malinconica come quando si scioglie la neve: “non cambiamo mai! Non è vero?”.

Arthur Juno visse lo strazio della guerra e dei pogrom: una vita che fu letteralmente un difficile cammino verso la terra promessa. Che cosa intendeva dire affermando che si è vecchi “quando il domani è già ieri”?
Forse indicava quello stato d’animo di cui parla Vasco, in un brano che racconta di quando uno ha smesso di credere nel domani e nelle sue possibilità:


“Ed ora che del mio domani non ho più la nostalgia,
ci vuole sempre qualcosa da bere, ci vuole sempre vicino il bicchiere”.

Vasco Rossi, Stupendo

Il domani è già ieri quando diciamo “ormai ho già visto tutto quello che c’era da vedere”, “ormai so tutto quello che c’era da sapere”.
Se per noi le cose sono sempre le stesse, se pensiamo che il domani sia già scritto nel perpetuarsi degli errori di ieri, non significa che oggettivamente non c’è speranza, ma che noi non la sappiamo trovare perchè siamo già vecchi dentro, indipendentemente dall’età biologica delle nostre cellule.
Ebbene: questo non è un paese per vecchi! il mondo è un posto per gente che guarda al domani rendendosi conto di avere sempre gli strumenti e le possibilità per cambiarlo.

Oggi, io parto da qui.

dAle

Giu 202019
 

Something is about to give
I can feel it coming
I think I know what it means
I’m not afraid to die
I’m not afraid to live
And when I’m flat on my back
I hope to feel like I did

Who’s to say where the wind will take you
Who’s to say what it is will break you
I don’t know which way the wind will blow
Who’s to know when the time has come around
Don’t wanna see you cry
I know that this is not goodbye

U2 – Kite

  • Dottoressa, cosa dobbiamo dire a nostra figlia?
  • In che senso?
  • Beh, sa… noi non ci abbiamo mai pensato… non sappiamo cosa ci sia o non ci sia… non ce lo siamo mai chiesto. Dove possiamo dirle che sia andato il nonno?
  • Perché? Dove è andato?
  • Beh… è morto.
  • Ah…

Uno dei tanti colloqui sentiti che ruota attorno al problema di quando bisogna parlare con i nostri figli di quel tabù innominabile che è la morte. È il limite. Per molti di noi è sempre stato così: meglio non pensarci, meglio non svegliare il can che dorme. Stiamo bene, siamo mediamente felici, lavoriamo, ci divertiamo e tutto fila liscio.

Quasi tutto. Perché poi le domande che ci chiamano ad essere responsabili arrivano e ci lasciano spaesati. Per qualcuno è un’occasione per riflettere e cominciare un cammino forse nuovo o forse interrotto anni prima. Per altri è solo un’ombra fastidiosa da scrollarsi di dosso il più in fretta possibile.
Di fronte al dialogo quasi surreale raccontatomi da mia moglie mi sono tornate alla memoria le parole di Jean Guitton in Lettera a un bimbo:

Da vecchio ho imparato, troppo tardi, senza alcun dubbio, che ci si arricchisce vivendo con un bimbo. Soprattutto se si chiede al bimbo di fare delle domande. Ho fatto visita a un celebre filosofo tedesco che si chiama Heidegger. A quel tempo viveva in una baita da eremita e in mezzo a quella campagna coperta di neve, Heidegger mi diede questo consiglio: “Se vuol progredire, tanto in filosofia quanto in religione, si faccia porre domande da un bambino. Non potrà rispondergli sempre, ma le farà scoprire la verità: perché il Vero è sempre velato. Il bambino toglie il velo”.

Essere responsabili significa essere capaci di rispondere. Da genitori, sforzarsi di farlo è il minimo. Con le parole, la propria vita quotidiana, i sentimenti. C’è tutto un universo di valori e di verità che aspettano di essere conquistati e trasmessi. Se li lasciamo sempre in secondo piano rischiano di evaporare e diventare sempre più evanescenti.

Concludo con l’augurio di Guitton:

Ti guardo con tenerezza, con timore, con speranza. Perché io sono il passato e tu l’avvenire. Sarai forse tu, piccolo, a rinnovare la gioia della terra. Per questo dovresti rimanere “piccolo”. Crescendo, dovresti rimanere bambino. Allora sarai un poeta, sarai un artista. Sarai fra coloro che la gente ammira perché hanno conservato il fascino dell’infanzia.
Eccoti alcuni consigli per rimanere bambino. Innanzitutto, il mattino, quando ti svegli, sentiti tutto meravigliato, come se il sole stesse per sorgere per la prima volta, come se tu per la prima volta saltassi fuori dal tuo letto per vivere. Immagina che quanto tu ora stai vedendo, ieri non fosse esistito, come se stessi assistendo alla nascita del sole, al principio del mondo. A scuola fai i tuoi compiti e applicati. Impara a tracciare le linee, a non commettere errori. Ti consiglierei di essere spesso un po’ distratto; di avere una parte di te che presta attenzione alle linee, alla punteggiatura e a tutto ciò che ti insegnano i maestri, e un’altra parte che deve essere come un uccello, che vola lontano e non presta attenzione a nulla. Per rimanere un bimbo tutta la vita, è questa seconda parte di te stesso che dovrai coltivare. Diranno che sogni. Ma è il “sogno da sveglio” che regala il genio…

 Maco

Mag 242019
 

Gli amici del giro di Darl Vanzard non erano difficili da individuare. Erano ragazzi ricchi e vivevano nell’East End; erano stati respinti alla A&M del Texas, si erano trasferiti in un college di contea o avevano cominciato a lavorare nelle aziende che avrebbero ereditato. Ma a definirli veramente era uno strano atteggiamento egocentrico nei confronti del prossimo. In pubblico erano agitati, chiassosi e insensibili, indifferenti alle ferite che le loro parole potevano causare a coloro che si trovavano al di fuori del loro perimetro. Correvano troppo al volante delle loro automobili, senza rispettare gli stop e i segnali luminosi, senza mai riflettere sul nesso fra la loro avventatezza e il pericolo che causavano arbitrariamente alle esistenze altrui.

Parlavano con accento locale, ma avevano sciato in Colorado e fatto surf in California, e giocavano a golf e a tennis in un Country club nel quale i neri e i messicani raccoglievano i loro rifiuti dai green e i loro asciugamani sudati dai campi come se quella fosse la funzione naturale dei poveri. La loro insensibilità era quasi una forma di innocenza. Se fossero stati sgridati per il loro comportamento probabilmente non avrebbero capito la ragione del rimprovero.

James lee burke – Terra violenta

Ho appena letto un bell’articolo dove si racconta l’incontro fra Sergio Cusani e Gherardo Colombo, invitati a parlare in una scuola superiore a Sesto S. Giovanni. La giornalista scrive:

Cusani racconta ai ragazzi di aver maturato in carcere la consapevolezza di un meccanismo di smottamenti progressivi: “Le micro scelte in apparenza insignificanti, che durante il periodo formativo uno compie autoassolvendosi perché così fan tutti, aprono una breccia. Poi nella maturità diventano macro scelte. Ti dicono: “Il tuo obiettivo è quello” e tu, che ti sei abituato a pensare che il fine giustifichi i mezzi, fai di tutto per raggiungerlo. Dopo quello che ho attraversato ho cambiato il mio paradigma: il fine non giustifica i mezzi, come teorizzava Machiavelli, sono i mezzi a dare senso al fine. L’ ho imparato da un grande filosofo italiano: Giorgio Agamben. Diversamente giustifichi tutto: dalle stragi naziste, alle purghe staliniane”.

C’è un continuo lavorìo che dobbiamo compiere su noi stessi. Si tratta di scelte quotidiane che accompagnano la nostra storia e riguardano realtà anche minime, insignificanti. Eppure, come piccoli mattoni, uno dopo l’altro costituiscono le fondamenta del nostro sentire e agire morale. Mi meraviglio sempre delle reazioni oscene e impregnate di violenza che spesso si trovano sui social. Forse molto dipende dall’inesistenza di queste fondamenta costruite con pazienza e sacrifici.

E spesso mi trovo davanti ragazzi che non hanno consapevolezza del loro agire e del male possibile che potrebbero arrecare ad altri. Un male che potrebbe segnare chi li circonda e segnare loro stessi per molto tempo. Dice Colombo che: “Percepii presto che una trasgressività così estesa, capillare e articolata non poteva essere risolta con lo strumento della repressione penale. Prova ne è il fatto che Mani pulite non ha marginalizzato la corruzione. Cusani è stato tra i pochi a scontare in carcere la pena: altri si sono resi irreperibili o sono finiti prescritti, altri assolti perché le leggi erano cambiate nel frattempo. Per quanto lavorassimo non si arrivava in fondo. Con il tempo mi sono convinto che il problema fosse a monte dei tribunali: un po’ come quando un idraulico che ripara un rubinetto, non trovando il guasto, risale all’impianto centrale. Credo che il nostro “centrale” sia la relazione che le persone hanno con le regole: se non risolvi quello la giustizia non funziona. Per questo vado tanto nelle scuole”.

Spesso nei ragazzi che ho davanti manca la capacità di percepire il limite. Cioè la sensibilità di riconoscere la presenza di linee di demarcazione che non vanno superate. Certo è una questione di età: ci provano, sfidano gli adulti, cercano di definirsi nel confronto/scontro con i grandi. Ma è anche una questione di educazione: nessuno ha mai fatto capire loro l’inviolabilità di certi confini. Nessuno ha mai risposto, anche con durezza se necessario, alle loro trasgressioni distruttive. È come se fossero stranieri in se stessi e per questo costantemente squilibrati nei rapporti con gli altri. Nessuno ha mai mostrato/dimostrato loro cosa significa essere responsabili: è come se gli adulti d’innanzi alle loro faticose sfide e richieste quotidiane siano evaporati.

Nessuno che gli abbia insegnato, come dice Colombo, che “Non c’ è libertà senza responsabilità” .

Maco

Apr 052019
 

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Had to lose my way
To know which road to take
Trouble found me
All I look forward
Washed away by a wave
I’m going back to my roots
Another day, another door
Another high, another low

Imagine Dragons – Roots

Traspare dalle parole di Daniele Mencarelli la coscienza di una personale fragilità, che però non diventa mai fonte di giustificazioni. La sua è una giovinezza passata fra droghe e alcolismo.

Undici ottobre novantadue
sedici gli anni appena scoppiati
mille i cazzotti mille i baci
strappati dalle labbra di un paese
sgranato passo dopo passo,
senza mai soddisfarla veramente
questa fame infelice
questo desiderio cane di carne e vita
di voglie ubriache sempre in festa.
Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi
un corpo sfinito che s’arrende
a qualcosa dentro di feroce.

Mencarelli – Undici Ottobre Millenovecentonovantadue

Lo scontro con la realtà lo riporta a vivere: risorge quando comincia a fare le pulizie all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, “luogo di tortura, di maledizione”. Per purificarsi dentro l’anima deve piegarsi a pulire i bagni dell’ospedale. È in questo luogo di incontro/scontro fisico con il male (spesso i bambini, malati incurabili, muoiono) che ha origine il suo ritorno alla vita, dopo anni di devastazione.

Mi ha colpito la sua affermazione che “oggi si cercano sempre le responsabilità fuori di noi: il contesto sociale, le cattiva compagnie, i professori ostili…” A creare questa tendenza è “una mentalità buonista fondata sulle attenuanti. Gli psicologi, gli assistenti sociali, i media, anche le persone comuni che incontro alle presentazioni, c’è il ritornello tipo ma forse i professori… gli amici sbagliati… L’aguzzino è sempre l’altro. Nel mio libro è chiaro che il cattivo che fa soffrire gli altri sono io. L’ipertrofia del giudizio, giudicare gli altri e assolvere noi stessi, è una cosa un po’ grillina: onestà, onestà. Mentre il mondo lo cambi cominciando da te stesso”.

Ci vuole coraggio per guardarsi dentro e guardare alle azioni commesse senza finzione, senza la patina opaca e assolutoria dell’autogiustificazione. Ci sono in lui la forza e l’integrità di chi non si considera una vittima. Nessuno scaricabarile, nessuna negazione di responsabilità per il male inflitto a se stesso e agli altri.

Come dice D. Giglioli nel suo saggio Critica della vittima: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”. Non è stato così per Mencarelli: si è caricato sulle spalle la realtà e da quel momento ha ricominciato a vivere. Infatti “per punire il raccomandato, il primo giorno mi mandarono a pulire dei cessi terrificanti. […] Decisi di misurarmi con i miei limiti. È stato l’inizio della rinascita. La realtà è provocazione, il primo passo è cimentarsi, duellare con lei, anche se è un cesso immondo. Quando eviti il confronto e ti rintani nella tua stanza sei sempre soccombente”. Condivido in pieno queste affermazioni. La realtà è piena di provocazioni che ti chiamano a lottare per vivere. Se preferisci startene chiuso nelle tue stanze, anche virtuali, sei fregato.

Concludo citando un’altra sua intervista: “Lo spaesamento è dell’uomo di fronte all’esistenza. Facciamo finta di niente, ma per quanto ci ostiniamo a rimpiccolirla, la vita resta un’esperienza scandalosa, piena di interrogativi senza risposte, di sentimenti invisibili. […] L’individuo che pensa alla propria esistenza è consapevole a se stesso, probabilmente meno attratto da tutto ciò che è vacuo, come un certo tipo di consumi; ed è, anche, meno produttivo, perché sa che le cose fondamentali stanno altrove. L’arte, come qualsiasi attività umana, non è in grado di farci rinascere. Ci fa rinascere solo l’amore, verso gli altri e noi stessi, almeno questo mi ha detto la mia esperienza”.

Ed è proprio vero: le cose fondamentali stanno altrove. Tocca a noi lottare per conquistarle.

Maco